Ho trascorso la mia infanzia in campagna, dove i miei genitori gestivano il ristorante di Veleia Romana. Per andare a scuola, seguivo un sentiero che attraversava i boschi. La scuola, in effetti, era una stanza situata nel seminterrato di un altro ristorante, a circa due chilometri di distanza (ah, la bellezza di essere in dieci bambini distribuiti su cinque classi diverse, ma questa è una storia che racconterò in un’altra occasione).
Ogni mattina, con lo zaino in spalla e mio fratello Matteo e Pepe (cagnolino del cuore) al mio fianco, sembrava di partire per un’avventura. Gli incontri lungo il cammino erano dei più vari: c’era Mirko, il cane dispettoso che ci inseguiva alla prima curva, Giacomo con il suo trattore (che a volte ci dava anche un passaggio), Don Giovanni (che non abbiamo mai capito cosa ci facesse lì a quell’ora), e in autunno, soprattutto, c’erano loro: i ricci.
Addormentati e lenti, goffi e buffi, ma certamente adorabili. Pepe iniziava ad abbaiare per farli scappare, mentre io e Matteo facevamo delle scommesse su chi sarebbe arrivato per primo dall’altra parte del sentiero (scommesse serie, tanto che rischiavo di perdere la merenda!).
Ripensando a quei momenti, mi sembra di ricordare un mondo da favola, un luogo dove rifugiarmi nelle mie giornate “no”.
PERCHÉ TE LO RACCONTO? Perché da quel musetto mi è nata l’ispirazione per creare “Il riccio nelle storie”, un piccolo animale che possa sempre evocare tenerezza e tenere unite le tue storie. Storie fatte di biglietti, cartoline ricevute, lettere mai inviate, vecchie fotografie, disegni o semplici appunti… insomma, un rifugio dove tornare di tanto in tanto.
PS: Sì… può sembrare che parli di un racconto di Dickens, ma assicuro che non è così: un tempo i bambini andavano a scuola da soli, specialmente in campagna