Diventata famosa per la saga arturiana e le sue lotte femministe, non è tutto oro quello che luccica: a quattordici anni dalla morte la figlia la accusa di violenza sessuale
Marion Eleanor Zimmer, nasce il 3 giugno 1930 e si sposa a diciannove anni con Robert Bradley. Quindici anni dopo i due divorziano ma lei decide di conservare il cognome che già utilizzava per firmare i suoi racconti fantascientifici.
Nel frattempo si impegna nella scrittura di varie opere a tematica lesbica; queste opere non vengono più stampate da una vita e di fatti chi le possiede è fortunato, hanno un valore inestimabile.
Il suo primo romanzo, I falconi di Narabedla, esce a puntate su una rivista nel 1957. Marion nel frattempo sta perfezionando uno degli universi letterali meglio riusciti della seconda metà del ventesimo secolo: i cicli di Avalon e di Darkover.
Sono senza dubbio i suoi capolavori, in particolare Le nebbie di Avalon del 1983 per cui impiegò anni di lavoro e studio (e ne valse la pena dato che divenne un best seller sul New York Times per moltissimo tempo). La serie tratta da quest’opera vinse addirittura il Golden Globe nel 2002. Oltre a Le nebbie di Avalon, tra i suoi romanzi più importanti si ricordano La torcia e Le luci di Atlantide, oltre ad alcuni titoli del ciclo di Darkover che hanno valso all’autrice due candidature al premio Hugo (La spada di Aldones e La torre proibita) e una al premio Nebula (L’erede di Hastur). La serie di Darkover contava, nel 2012, più di cinque milioni di copie stampate solo negli Stati Uniti.
“Le nebbie di Avalon” soprattutto fece scalpore. Un fantasy sul ciclo bretone e le avventure di Re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda? Di più: la Bradley ribaltò lo sguardo su quell’epica, raccontando le vicende dal punto di vista femminile e sovvertendo lo sguardo sui temi del potere (anche religioso) e del rapporto fra sessi. Lo fece in modo provocatorio e con grande successo.
Ma non è tutto oro quello che luccica. Il secondo marito venne accusato e condannato per pedofilia trascinando Marion nel processo con l’accusa di essere a conoscenza delle tendenze dell’ormai ex marito (i due infatti erano separati da anni). Muore nel 1999 dopo essere stata assolta definitivamente, ma nel 2014 viene nuovamente accusata dalla figlia.
Infatti quindici anni dopo la morte di Marion Zimmer Bradley, sua figlia raccontò di essere stata abusata sessualmente da lei dai tre ai dodici anni. E disse che suo padre era un molestatore e stupratore seriale di minorenni, pluricondannato e morto in carcere, e che la madre pur sapendolo scelse di non denunciarlo.
Sembra assurdo che una donna che si è battuta tanto per i diritti e la libertà femminile possa essere coinvolta in simili crimini, ma il valore delle sue opere va aldilà delle controversie.
Questo ci porta ad un tema importante: fino a che punto il lavoro degli eroi culturali può essere tenuto distinto dalla loro vita privata? E Michela Murgia – che scrisse della Zimmer Bradley nel suo libro “L’inferno è una buona memoria” così risponde: “ […] difendo il diritto di leggere il libro della Zimmer Bradley fregandocene del fatto che lei fosse o meno una stupratrice. Chiarisco subito che io sono convinta che lei fosse una molestatrice, non metto in dubbio la parola della figlia. La madre doveva essere giudicata per quel che ha fatto, non per i libri che ha scritto” […] Con un approccio simile non dovremmo leggere Celine o Nabokov.[…]. Abbiamo difficoltà a capire che l’umanità è fatta di luci e di ombre”.
E tu, cosa ne pensi?