Poco riconosciuta al suo tempo, venne rivalutata dopo la sua morte. La sua è una scrittura difficile, complessa, sfuggente, che non si lascia acchiappare in citazioni o aforismi
Nasce a Roma il 13 giugno da una famiglia numerosa e molto povera, che si trasferisce in diverse città prima di stabilirsi nel 1928 a Napoli. Quasi autodidatta – la formazione scolastica costituita solo dalle scuole elementari e da un anno di una scuola commerciale – Anna Maria si cimenta nel disegno e nello studio del pianoforte, ma infine si appassiona alla letteratura e scopre la propria vocazione di scrittrice. La mancata formazione scolastica fa risaltare ancor più la perfezione stilistica della sua opera, e lo stupore e la meraviglia che essa suscita, in chi vi si accosta, sono se possibile amplificati da questo dato.
Anna Maria Ortese rientra nella corrente del realismo magico italiano, che si coglie specialmente nel senso di stupore e meraviglia presente nelle sue opere. Sono sentimenti quasi infantili, quelli che racconta Ortese, sentimenti che si mescolano a un’atmosfera di malinconia, di tragedia inevitabile, di tristezza inconsolabile (ricordiamo che la vita di Anna Maria è segnata da lutti violenti, prima quello del fratello Manuele, poi quello del fratello Antonio, e in seguito quello dei due genitori).
I personaggi che costellano i suoi romanzi e i suoi racconti sono figure sfumate, che nascondono significati non semplici da decifrare. Pensiamo per esempio a Estrellita, la donna iguana di cui si innamora il protagonista de L’iguana, romanzo comparso nel 1965 e pubblicato da Vallecchi. Si tratta di una creatura mostruosa ma innocua, una “bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall’apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna”. O ancora alla tredicenne Damasa, protagonista de Il porto di Toledo, uno dei romanzi più estremi della scrittrice, resoconto visionario di un mondo dove “tutto ciò che si vede o accade è incantato o spaventoso”.
“Da molto, moltissimo tempo, io detestavo con tutte le mie forze, senza quasi saperlo, la cosiddetta realtà: il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte. Questa realtà era per me incomprensibile e allucinante”.
L’irritazione di Ortese nei confronti della realtà, la conduce da un lato verso scenari incantati e mostruosi (come l’isola di Ocaña de L’iguana), dall’altro verso uno stile sfocato, indefinito, concitato, che sembra voler a tutti costi fuggire dal mondo.
C’erano diverse personalità del mondo della cultura che ne apprezzavano il lavoro. Tra queste, Pietro Citati che la descrisse come una “zingara sognante”, mettendo in luce uno degli aspetti più caratteristici del suo lavoro: una scrittura difficile, complessa, sfuggente, che non si lascia acchiappare in citazioni o aforismi
Dalle lettere agli amici, dalle rare interviste concesse, il desiderio di essere riconosciuta come “scrittrice”, come “narratrice”, sarà sempre un punto dolente nella vita di Ortese. Dagli intensi scambi epistolari fra la scrittrice e amici, quali Citati e Dario Bellezza, si possono cogliere momenti intimi e aneddoti, di alcuni dei quali è possibile trovare un’eco nell’opera della Ortese.
Solo in tarda età, esattamente nel 1993 a 79 anni, la Ortese riuscirà ad avere un maggior successo di pubblico con Il Cardillo Addolorato, edito da Adelphi, casa editrice che già dal 1986 cominciò a ristampare tutte le sue opere (in collaborazione con l’autrice stessa) in modo da formare un corpus rivisitato e organico. La Ortese muore il 9 marzo nel 1998