I suoi protagonisti più memorabili sono donne dal forte temperamento che non si lasciano abbattere dalla difficile vita. Vincitrice del premio Pulitzer nel 1923, la Cather negli States è un classico a cinque stelle, che non si mette in dubbio, da noi se facciamo la conta la conoscono in pochi. Ed è un peccato.
Nacque in Virginia (Winchester, 7 dicembre 1873 – New York, 24 aprile 1947), ma presto si trasferì con la famiglia a Red Cloud, in Nebraska; fu una grande giornalista del suo tempo, autrice per il McClure’s Magazine, testata letteraria e politica che ha pubblicato racconti suoi e, per fare qualche nome, di Twain, Doyle, London, e vincitrice di un premio Pulitzer per il romanzo One of ours. La Cather è romanziere dall’esordio tardivo quanto fulmineo (ha trentotto anni quando viene pubblicato, nel 1912, Alexander’s Bridge; lo precedono una dimenticabile raccolta di poesie e una manciata di racconti), e dalla crescita imperiale.
Sono in molti a sostenere che i grandi scrittori siano sempre – o quasi – dei provinciali. Di Willa Cather sappiamo essenzialmente due cose: che fece della vita nella frontiera americana, delle sue storie di immigrati e gente in cerca di fortuna il centro della sua opera narrativa, e che i suoi protagonisti più memorabili sono donne dal forte temperamento che non si lasciano abbattere dalla difficile vita nei nuovi insediamenti del Midwest alla fine dell’800.
Come ogni buon scrittore provinciale che si rispetti, restò sempre legata a Red Cloud, il villaggio del Nebraska in cui si trasferì bambina con la famiglia, scenario di un fallimento familiare (la fattoria non fu un successo, e la famiglia dovette abbandonarla) e allo stesso tempo rivelazione di un indistruttibile rapporto con la natura. I suoi personaggi sono spesso stranieri o comunque persone estranee al luogo che per qualche misteriosa ragione si legano alla terra a tal punto da fare del legame con essa – e della possibilità di domarla, di vivere dei suoi frutti – una vera ragione di vita.
Spesso sono donne, e c’è qualcosa di commovente e di estremamente partecipato nel modo in cui Cather racconta il coraggio femminile e l’ostinazione nel resistere a carestie e tempeste. L’opera di Cather ha resistito anche a chi voleva farne una bandiera lesbica o femminista; semmai è una scrittura “celibe”, che può ricordare la robustezza di voce di Flannery O’Connor o di Carson McCullers o, più sullo sfondo, Hawthorne e Melville, che certamente furono suoi modelli.
Una scrittrice come la Cather, con movimenti di danza, ti stupisce nel giro stretto di una frase. Le delicate evocazioni liriche della natura, intrecciate sovente con temi religiosi sconfinanti nel misticismo, sono espresse in uno stile conciso, terso, trasparente. Fra i temi dei romanzi, quasi sempre a struttura ciclica: l’artista in lotta per la sopravvivenza intellettuale in una società provinciale e conformista, l’esaltazione nostalgica del passato, la ricerca dell’io dell’infanzia e quella delle radici storiche americane.
Il mio nemico mortale è la storia di una vita, della sua inevitabile trasformazione e degli ineluttabili fallimenti, un senso di sconfitta che traspare in una scrittura piena di grazia malinconica. La Cather, in questo romanzo breve, si colloca perfettamente in quella corrente letteraria che appartiene al realismo psicologico, raccontando i dolori nascosti, le frustrazioni, di una società in continuo e rapido cambiamento, senza eccessivi pudori ma utilizzando un garbo e una grazia nello stile che rendono la lettura leggera, nonostante tutto.
IL MIO NEMICO MORTALE
è il racconto di un racconto. La giovane Nellie Birdseye, io narrante e personaggio secondario, ripercorre con la memoria la storia di Myra Driscoll Henshawe – amica di sua madre e sua zia, – la sua fuga d’amore con Oswald, la rinuncia al patrimonio dello zio ricchissimo, – che non la perdonerà, – la vita dei due sposi felici in una New York in pieno sviluppo economico e artistico, una vita in bilico tra apparenza e realtà in cui Myra è assoluta protagonista e artefice. Nellie è affascinata da questa figura così trasgressiva e bella, dolce eppure spietata, inquietante direi. Nella sua casa si avvicendano amici del mondo dei ricchi – bisognava frequentarli per Oswald – e gli artisti dell’epoca, da Sarah Bernhardt (che recitò l’Amleto nei panni di Amleto, il massimo della trasgressione…) a Helena Modjeska, cui Myra era profondamente affezionata. Un’esistenza luminosa e piena quella dei due amanti fuggiaschi, che però nasconde un disagio profondo, un’infelicità che Nellie scoprirà più tardi, una decina di anni dopo gli eventi di New York, quando incontrerà di nuovo la coppia, povera e malandata, in un appartamento fatiscente sulla costa occidentale. Myra è malata e tratta il marito con distacco: è lui il suo “nemico mortale”, colui che le starà accanto nel momento della sofferenza e della morte.
“Si può essere amanti e infelici allo stesso tempo, sai? Noi lo siamo stati… Un uomo e una donna si separano dopo un lungo abbraccio e vedono cos’hanno fatto l’uno all’altra.”
Ma dov’è la modernità di questo romanzo? Gli eventi si svolgono a cavallo del 1900, e per quell’epoca le fughe d’amore non erano certo qualcosa di accettabile, specie in una società provinciale e profondamente religiosa. La ribellione di una giovane donna non era qualcosa di consueto, soprattutto a discapito di una fortuna patrimoniale non indifferente. Ma ciò colpisce sono le conversazioni tra Myra e Nellie (che non vi spiego, non vorrei togliere la bellezza della scoperta 😊 )